Da quando ho visto un suo dipinto in un’azienda di moda della mia zona, mi sono sempre sentita attratta dalle “celle” di Peter Halley.
Crediti immagini: peterhalley.com
Sono sempre stata affascinata da Peter Halley, e, quasi inconsciamente, quando l’ho conosciuto (culturalmente parlando) avevo intuito da subito il significato ancestrale delle sue celle.
Peter Halley: un artista che intuisce
Credo che più di ogni altro Peter Halley si sia calato all’interno della rivoluzione culturale che ha abbracciato gli anni novanta e la loro potenza.
Ha infatti dedicato alla critica e all’interpretazione dei tempi così diversi che ci hanno attraversato negli ultimi decenni un grande lavoro di interpretazione.
I suoi scritti su post-strutturalismo, post-modernismo, e la rivoluzione digitale degli anni 1980, sono stati raccolti in due libri pubblicati nei primi anni duemila.
Nel 2001, ha ricevuto il Frank Jewett Mather Award dal College Art Association negli Stati Uniti per la sua scrittura critica.
Tutto quello che riguarda la sua produzione artistica lo trovate riassunto nella suo sito ufficiale.
Per Peter Halley “Cells mean “life”
A me piace capire soprattutto cosa comunicano i suoi spazi geometrici, le sue “prigioni”, le sue cellule.
Ecco alcuni brani che ho tradotto da alcune interviste che risalgono ai primi anni 2000.
Peter Halley: Conversation with Karlyn De Jongh
By Karlyn De Jongh“Personal Structures: Time Space Existence” book by Peter Lodermeyer, Karlyn De Jongh & Sarah Gold, DuMont Buchverlag, Cologne, Germany, 2009, pp 276 – 281
KDY:Nel 1984 è stato definito nella tua pittura il concetto di spazio come “cellule’: un campo digitale fatto da texture di stucco da cui scorrono irradiati ‘condotti’.” Prendendo questa definizione in considerazione, si è parlato di numerose varianti di spazio, come ad esempio spazio sociale, spazio cellulare, spazio simulato, e spazio geometrico. Come differiscono gli uni dagli altri?
PH: Nei primi anni 80, ho sentito che lo spazio in cui viviamo è definito da comparti collegati da percorsi predeterminati. Continuo a credere che questo è lo spazio dominante nella nostra società. Nel 1990, ho cominciato a lavorare con diagrammi di flusso presi dalla psicologia e informatica libri di testo, che ha definito spazio assolutamente allo stesso modo genere. La mia conclusione è stata la seguente: questo spazio è stato prima codificato dallo strutturalismo dei primi anni del XX secolo. Si tratta di un modo di collegare e organizzare le cose: prima categorizzazione e quindi la creazione di connessioni tra di loro.
Sempre nella stessa intervista:
Per concludere, vorrei anche sottolineare che lo spazio che mi interessa è lo spazio umano, lo spazio che gli esseri umani si costruiscono. Lo spazio che spesso pone un limite alla nostra comprensione, visto che, riprendendo anche ciò che ho appreso da Focault, non sempre capiamo ciò che facciamo come esseri umani.
La sensazione d’arte che riguarda le sue “celle”: la “solitudine connessa” di Peter Halley
Cos’è la solitudine connessa? È forse quella che spesso intravediamo quando gli adolescenti faticano a relazionarsi tra loro, quando si intimoriscono per un contatto, eppure hanno 200 canali social aperti e duemila amici su Facebook.
Le celle rappresentano per me i nostri nuclei personali, le nostre essenze connesse con gli altri. E dive bene Peter Halley: un tempo erano predefiniti dalla televisione, dalla radio, dai mass media 1.0, ovvero senza possibilità di replica.
Ora vedrei diversamente le celle e i loro collegamenti con l’esterno. Vedrei una Matrix che lascia spazio alla capacità di pensiero, all’accesso alle informazioni, alla consapevolezza di guardare dietro alle apparenze.
È una cosa che voglio approfondire: studiare e vedere la produzione odierna di Halley, e capire se e cosa è cambiato nelle sue opere così didascaliche e comprensibili, e allo stesso tempo così ermetiche.